Gaza e l’aritmetica
dell’indifferenza
di VITTORIO PELLIGRA,
Avvenire 25 maggio 2025
Nel cuore della Striscia di Gaza, una tragedia umanitaria si
consuma con la lentezza crudele della fame. Da troppo tempo in quel luogo
diventato l’inferno in terra i bambini muoiono a occhi aperti, le madri
stringono corpi ormai senza vita, e i padri scavano tombe a mani nude.
Eppure, il mondo guarda altrove. L’orrore è reale, ma la
risposta internazionale è un sussurro, un vago fastidio nella routine
dell’attività diplomatica. Com’è possibile? La risposta non sta solo nelle
ragioni della geopolitica o nella diplomazia, ma anche nella nostra psicologia,
nel modo in cui il nostro cervello reagisce a simili tragedie e produce una
verità sconcertante: più aumenta il numero delle vittime, meno ci curiamo di
loro.
Lo psicologo americano Paul Slovic chiama questo fenomeno “
pshychic numbing”, una vera e propria anestesia psichica che desensibilizza il
nostro senso morale. Il termine descrive quel meccanismo per cui la nostra
empatia si spegne davanti alla massa del dolore.
« Uno è una tragedia, un milione è una statistica», diceva
Stalin – e la psicologia sperimentale dà conferma della sua intuizione.
A Gaza, ogni fotografia di un bambino denutrito dovrebbe
spezzare il cuore dell’umanità. Eppure, le immagini si accavallano, si
moltiplicano, diventano “troppo”. Siamo entrati a pieno titolo in quella che
Robert Lifton e Greg Mitchell definiscono l’età della desensibilizzazione: una
nuova era dove la sofferenza delle moltitudini è diventata rumore di fondo e
l’anestesia collettiva ci fornisce un rifugio e un alibi.
Alla desensibilizzazione psichica si aggiunge un secondo
fenomeno che ne amplifica l’effetto. Si tratta della cosiddetta
“pseudoinefficacia”. Vedere un solo bambino affamato ci commuove; vederne mille
ci fa sentire impotenti. È la tragica “aritmetica della compassione”, come
scrive Daniel Västfjäll: più cresce la tragedia, più ci sentiamo piccoli e
inutili, e invece di reagire con coraggio e impegno, scegliamo di girarci
dall’altra parte per scappare dal senso di impotenza.
Ma la nostra psicologia non può essere una giustificazione o
ancor peggio una scusa. Perché c’è anche la scelta politica. Sempre Slovic
parla al riguardo di un “effetto prominenza” che si verifica quando le scelte
degli Stati sullo scacchiere internazionale sono dominate da ciò che è più
“visibile” e conveniente per i leader che quegli Stati li governano e che, per
questo, sono pronti e ben disposti a lasciare da parte ciò che sarebbe
moralmente più urgente. Ecco, Gaza e la sua tragedia non è prominente. Non
genera voti, né profitti, a meno di raderla totalmente al suolo, di deportare i
suoi due milioni di abitanti e di costruirci resort di lusso, sia ben inteso. È
grazie all’“effetto prominenza” che l’indifferenza diventa una strategia
calcolata prontamente mascherata da prudenza diplomatica.
Il risultato? Un assedio che affama deliberatamente un
popolo, trasfor-mando il pane in arma. Secondo il diritto internazionale, la
fame come strumento bellico è un crimine. Ma dove sono le sanzioni? Dove sono
le risoluzioni Onu capaci di agire, non solo di “condannare”? L’Occidente ha
fatto del “mai più” un mantra, ma ora tace, pavido, mentre si consuma una delle
più gravi crisi morali del nostro tempo. Gaza non ha bisogno di lacrime. Ha
bisogno di voce. Di indignazione. Di una rottura netta con l’indifferenza.
Perché ogni bambino lasciato morire di fame per calcolo politico rappresenta il
fallimento più atroce di ogni valore su cui la nostra civiltà si fonda. E
nessuna scusa psicologica potrà mai giustificare il silenzio di chi avrebbe
potuto parlare e ha scelto di non farlo.
pubblicato da Annamaria Gatti
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