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rallegrano e stimolano le scelte quotidiane dei genitori.

martedì 11 settembre 2018

Primi giorni di scuola. Attenti ai bambini!

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Con un post un po' più lungo del solito, ospito nel blog il ricordo di un primo giorno di scuola di 58 anni fa.
Un primo giorno che resta impresso, marchiato a fuoco, nella memoria di una donna che lo riprende e lo ripropone con la leggerezza di chi fa dei ricordi un dono. 
Ma anche con la trasparenza e la coerenza che "Attenti ai bambini" le riconosce.
Attenti ai bambini! fin dal primo giorno di scuola. 
Attenti ogni giorno di scuola, ogni sospiro, ogni sguardo attonito, ogni espressione beata, ogni sorriso annunciato, perchè questi bambini sono le donne e gli uomini di domani e spesso parole e gesti di un insegnante introducono a sentieri definiti.
Attenti ai bambini: sono la nostra ricchezza. Non barattiamola con null'altro. Saremo noi a fare i conti con la nostra vita, con la loro vita.

Chi racconta qui è Franca Monticello, scrittrice veneta per ragazzi. Insegnante appassionata. 
Auguri per questo inizio ai bambini, ai genitori e agli insegnanti, tanti, che amano la loro professione. E a chi non la ama e la subisce chiediamo di percorrere un po' di strada in compagnia di chi lo fa con  entusiasmo  e responsabilità, per riprendere coraggio. Oppure faccia altro, per essere felice ed efficace.
 Viva la scuola! 

"Un nuovo anno scolastico sta per avere inizio ed è inevitabile, per me, ricordare la mia esperienza, sia come alunna che come insegnante. Augurando a tutti un buon anno scolastico, voglio condividere con voi un ricordo molto personale: quello del mio primo giorno di scuola.
Il peso delle parole
«Come ti chiami?»
«Maria».
« Sei così piccolina! Quanti anni hai?»
«Sei».
«Ah, sei tu allora la bambina che è venuta in seconda senza aver fatto la prima!» 
«Sì».
«Sei più giovane dei tuoi compagni, dovrai impegnarti molto per essere brava come loro!»

1 ottobre 1960, in assoluto il mio primo giorno di scuola. Non avevo frequentato l’asilo (allora si chiamava così), né la prima elementare perché, all’epoca, pare fossi una specie di bambina prodigio. Avevo imparato prestissimo a leggere e a scrivere, adoravo i libri, assorbivo con facilità le nozioni che mio fratello, qualche anno più grande di me, si impegnava a studiare: recitavo a memoria poesie, conoscevo i nomi dei sette re di Roma, la storia di Muzio Scevola e tante altre amenità.

Anche per il maestro Antonio era il primo giorno di scuola nel paesino di campagna che, probabilmente, non aveva mai sentito nominare prima di approdarci per ragioni di servizio; veniva dalla città, come quasi tutti i maestri d’allora ed era giovanissimo, dicevano, ma io, con gli occhi di bambina, lo vedevo come un uomo maturo.
Arrivammo davanti alla vecchia scuola, lui con la sua seicento bianca, io a piedi con due cuginetti, gli unici bambini che conoscevo in una classe di ventotto.

La mia mamma non mi aveva accompagnato: allora non usava. Mi aveva fatto indossare il grembiulino nero, confezionato bello ampio, in modo da poterlo sfruttare più anni, il colletto bianco inamidato e un bel fiocco rosa appuntato sotto. In cartella avevo l’astuccio con i colori a matita e la penna con il pennino a campanile, poi un quaderno e il meraviglioso libro di lettura che la mamma era andata a comprarmi qualche giorno prima, in bicicletta, nel paese vicino, dove c’era una cartoleria.
Mi aveva baciato su una guancia prima di lasciarmi partire e mi aveva raccomandato: «Fai la brava».

La scuola comunale del “Pesso” era un edificio fatiscente che avremmo abbandonato alla fine di quello stesso anno, per trasferirci in due nuovi plessi, dislocati uno in centro al paese, l’altro nella frazione.
Era stata a suo tempo edificata in una posizione strategica, proprio sulla sommità della collina che, ergendosi dal nulla in mezzo al paese, lo divide a metà. Probabilmente la scelta del posto aveva seguito la logica che, piuttosto che favorire i residenti di una zona rispetto a quelli dell’altra, era meglio scontentarli tutti, infatti, la si raggiungeva, sia dal centro che dalla frazione, risalendo la china del monte lungo una stradina bianca costeggiata dalle recinzioni di pietra di antiche ville e da vegetazione.
Seminascosta da tre grandi abeti (pessi) che le facevano ombra, la facciata si presentava rettangolare, squadrata; unico fronzolo, la scritta “scuola comunale” dipinta sul muro. Sulla facciata si aprivano tre porte: le laterali immettevano direttamente in due aule, la centrale portava al piano di sopra. Non c’era l’acqua al Pesso e la latrina era costituita da un buco sul pavimento.

Pensandoci, rivedo ancora la mia aula: enorme, con tanti banchi di legno altissimi, a due posti fissi, fatti di un unico blocco comprendente il sedile e lo scrittoio inclinato, macchiato dall’inchiostro di generazioni di bambini impegnati in esercizi di calligrafia.
Rivedo la cattedra, appollaiata sopra una pedana per consentire anche a quelli delle ultime file di vedere il maestro issato lassù, vicino alla lavagna d’ardesia nera, quadrettata. Su tutto e tutti incombeva un grande crocefisso al quale rivolgevamo una preghiera all’entrata e all’uscita da scuola.

Della mia aula ricordo soprattutto l’odore: l’invadente olezzo dell’inchiostro che impregnava ogni cosa, misto al fumo acre della legna e al sentore di stalla che si portavano dietro i tanti miei compagni che avevano i genitori contadini.
Il maestro Antonio aveva una pazienza infinita, anche con i più discoli. Il massimo del castigo cui poteva arrivare era mandarli vicino alla porta, in modo che potessero ugualmente seguire la lezione. Il sabato ci consegnava il libro della biblioteca, che avremmo potuto tenere a casa per una settimana, una festa per me.
Io credo di essere stata innamorata del maestro, come un bambino può esserlo di un adulto e mi pareva che anche lui avesse per me un’attenzione particolare. Non ricordo molto dei miei compagni, quasi come se a scuola ci fossimo stati solo lui ed io, e fui tanto delusa quando, l’anno seguente, venne a trovarci nella scuola nuova e mi salutò quasi per ultima, come se a stento si ricordasse di me.
Io non avrei mai potuto dimenticarlo, il mio primo meraviglioso, caro maestro, ma non avrei mai pensato che sarebbe stata proprio la nostra breve conversazione del primo giorno di scuola a imprimersi a fuoco nella mia mente, a diventare una pietra miliare nella mia vita.
- Sei più piccola dei tuoi compagni e dovrai impegnarti molto per essere brava come loro.
Dovrai impegnarti molto: io l’ho fatto, ce l’ho messa tutta nello studio, nel lavoro, nella famiglia, e questo è positivo. Grazie maestro!

Ma è stata la seconda parte della frase a condizionarmi l’esistenza: chissà se senza di essa mi sarei sentita ugualmente inadeguata in tante situazioni o se le avrei affrontate con più determinazione? Chissà se avrei sofferto allo stesso modo per la perpetua sensazione di non essere mai all’altezza?
Una frase detta ad una bambina di sei anni con la migliore delle intenzioni ed una donna matura che ci pensa ancora: in questo sta il potere straordinario di un insegnante, tanto più forte quanto più è amato.
Le sue parole penetrano nell’animo dei bambini, che le percepiscono e le elaborano in base alla sensibilità personale: ciò che nemmeno sfiora uno, può ferire profondamente un altro…e il maestro nemmeno se ne accorge.

Che cosa ho fatto nella mia vita?
Ho fatto l’insegnante con entusiasmo e con impegno, ma anche con la consapevolezza che è un compito estremamente delicato.
Per questo, ogni volta che incontro adulti che sono stati miei scolari, con tutto l’affetto che nutro per i bambini che sono stati, mi vien voglia di dir loro:
«Perdonatemi» .

                                                                                    Franca Monticello
                                                                                  insegnante scrittrice

Pubblicato da Annamaria Gatti
gatti54@yahoo.it
foto da womenclock.com

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