Condivido questo articolo illuminante di Alessandro D'Avenia (Corriere della Sera, 22 marzo) Cambiare una preposizione semplice dà a tutto il suo significato. E sostiene in questi giorni per nulla luminosi. C'è già tutta la grandezza nei nostri bambini e ragazzi, a noi coltivarla, concimarla darle la possibilità di farsi conoscere e di fiorire.
E... aprite le scuole! Non scuole catene di montaggio, ma botteghe, botteghe di vita vera!
... Senza storie l’uomo non scopre di che pasta è fatto e non trova quindi la propria storia. L’ho imparato da Dante (voglio celebrare così il giorno a lui dedicato: il 25 marzo), che ha descritto in pochi versi l’essenza del rapporto tra maestro e discepolo. Nel XV canto dell’Inferno (parentesi umanissima nel luogo senza speranza), Brunetto Latini, politico, poeta, filosofo di cui Dante aveva ascoltato lezioni e con cui aveva spesso conversato, riconosce il discepolo e ne afferra la veste, gridandogli: «Qual meraviglia!». Il rapporto maestro-discepolo comincia da qui: il primo prova stupore di fronte alla novità (unicità) del secondo, e così Brunetto chiama Dante «figliuol mio» e gli chiede di conversare un po’, camminando insieme. Maestro e discepolo sono due che esplorano la vita e il primo è chiamato, guardandolo bene, a dire all’altro che cosa vede, perché il secondo da solo non riesce ancora a vedersi: «Se tu segui tua stella/ non puoi fallire a glorioso porto/ se ben m’accorsi ne la vita bella». Così Brunetto indica la costellazione dei Gemelli, generosa in doni intellettuali e segno di Dante, o semplicemente il suo destino, perché un maestro sa che ogni uomo ha un porto glorioso.
L’aggettivo «glorioso», in Dante sinonimo dell’azione divina nella realtà, non indica la fama ma l’impegno di Dio per il compimento di ogni creatura, il completo venire alla luce della sua unicità, le cui potenzialità sono già presenti ma da attualizzare, e questo è affidato agli altri uomini. L’uomo fiorisce solo attraverso la cura: è l’unico essere vivente che viene educato e non semplicemente addestrato. Per questo invece di chiedere ai bambini che cosa vuoi fare «da» grande, dovremmo domandare che cosa vuoi fare «di» grande, perché la grandezza dell’umano non è qualcosa che si raggiunge per età o successo, ma è già tutta lì. Si tratta di portarla a compimento e i maestri esistono per aiutare a farlo: dare luce e dare alla luce. Brunetto infatti si rammarica:
«s’io non fossi morto,
vedendo il cielo a te così benigno,
dato t’avrei a l’opera conforto».
Il maestro dà «conforto», cioè protegge e dà forza a qualcosa che c’è già, è un giardiniere che conosce l’essenza del seme, ne rispetta le stagioni e offre le cure specifiche. Dante risponde infatti come un figlio grato di quanto ha ricevuto: nella
«mente m’è fitta, e or m’accora,
la cara e buona imagine paterna
di voi quando nel mondo ad ora ad ora
m’insegnavate come l’uomo s’etterna».
Il maestro segnala al discepolo come «eternarsi», cioè diventare chi, solo lui, può diventare: il modo unico in cui realizza l’umano. L’eredità dei maestri sono infatti le vite «eterne» (uniche) dei discepoli. Per questo noi ricordiamo i maestri (Gabriella, Aldo, Mario, Pino i miei...) che ci hanno guardato in modo unico, ci hanno fatto «sentire grandi» (si diventa ciò che si vede in anticipo negli occhi di chi ci educa), ridimensionando la nostra paura di non essere abbastanza o all’altezza, oggi evidente nella forma dell’ansia, prodotta dalla cultura della perfezione (anziché del compimento) e della prestazione (anziché della presenza). Attraverso un libro, uno sguardo, una chiacchierata... un maestro segnala al discepolo come diventare eterno, cioè come «vivere», e non gli permette di accontentarsi di «vivacchiare». Nel sistema scolastico odierno farlo è difficile, per questo dovremmo trasformare la scuola-catena-di-montaggio in scuola-bottega: l’umano non è mai in serie, è sempre un pezzo unico.
Troppi ragazzi, dopo 13 anni di scuola, sono persi sulla scelta futura e quindi in balia dei copioni dominanti, quelli a cui ci si aggrappa quando si sa poco o nulla di se stessi. Per ognuno invece c’è un porto glorioso e la scuola è il tempo di scoprirlo sulla mappa del desiderio (infanzia e adolescenza hanno questo fine e non quello di trovar lavoro), invece spesso i ragazzi escono da scuola sapendo poco di tutto e nulla di sé, esito del divorzio tra istruzione (il cui fine è la cultura) e educazione (il cui fine è la libertà). Se ciò che imparo non serve a conoscermi e diventare più autonomo (unico) sono al circo (addestramento e ripetizione), se invece mi fa crescere in libertà, sono a scuola (scoperta e coraggio). Che cosa vuoi fare di grande non significa inseguire miraggi di fama, ma aiutare l’altro a riconoscere la sua grandezza, anche nei limiti, come la rosa nel seme. Dice un proverbio: «Il diavolo non puzza di merda, ma ti fa dubitare che la rosa profumi». Un maestro, al contrario del diavolo, ti racconta il profumo, mentre concima il seme. Anche con il letame.
pubblicato da Annamaria Gatti
gatti54@yahoo.it
foto da greenme.it
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