"Arrivano le emozioni che colorano la notte"...di Andrea Agostini |
Questo è un contributo autorevole della Professoressa Daniela Lucangeli, professore ordinario di Psicologia dello
sviluppo e dell'Educazionea a Padova, membro dell’Osservatorio nazionale sull’infanzia e
dell’Academy of learning disability, la più grande società scientifica
internazionale che studia i disturbi dell’apprendimento.
Inoltre recentemente la professoressa è intervenuta sulla problematica del "sovraccarico cognitivo" dei ragazzi, altro tema strettamente correlato.
Inoltre recentemente la professoressa è intervenuta sulla problematica del "sovraccarico cognitivo" dei ragazzi, altro tema strettamente correlato.
Compiti si… Compiti no…? Quante volte mi sento fare questa domanda.
Sono una mamma oltre che un esperto di psicologia dell’apprendimento e la mia risposta è influenzata da entrambi i ruoli che vivo.
Da mamma sento anche io la preoccupazione di molte famiglie che vivono a volte con fatica l’impegno dei compiti a casa. Ed è una fatica dovuta almeno a due motivi diversi: c’è chi si lamenta per il tempo prolungato che i propri figli devono passare sui libri, e chi si lamenta perché non è obiettivamente in grado di capire come aiutarli, dal momento che le attività didattiche moderne sono lontane e diverse da quelle che ovviamente abbiamo ricevuto nel passato. Ricordo la discussione di una bellissima tesi di laurea a cui ho assistito, nella quale si descriveva un’indagine su di un campione di centinaia di famiglie italiane, il 67 per cento delle quali diceva di vivere con stress l’impegno dei compiti scolastici. Anzi misurando tale stress con una scala come quella della febbre, la temperatura superava i 38° per due famiglie su tre. Soprattutto nel passaggio tra le scuole primarie e le secondarie. Per fortuna tali indici ci dicono anche che per il 33% delle famiglie intervistaste i compiti rappresentavano un impegno a giusto carico.
Il problema, da esperto dell’apprendimento, credo sia proprio qui: il giusto carico fa la differenza. E anche in questo caso il giusto carico è da intendersi sia in termini quantitativi che qualitativi.
Al riguardo vorrei dire alcune cose.
Inanzitutto quanti compiti dare: gli studi di psicologia cognitiva hanno dimostrato che se è necessario esercitare i meccanismi dell’apprendimento, per stabilizzare e facilitare il recupero delle conoscenze acquisite, superare un certo numero di ore di studio è inutile e rischioso. Ne può derivare infatti un apprendimento di breve durata, apparente, che affatica il sistema cognitivo e lo rende incapace di recepire nuove cose il giorno seguente. Non solo, la motivazione all’impegno, e alla competenza, rischiano di affievolirsi, di lasciare il posto al fare tanto per fare, o peggio ancora al fare per paura delle conseguenze, non ultime l’insuccesso stabile e la disistima.
Dunque fondamentale dal punto di vita educativo diventa quali compiti dare e come farne fare tesoro all’allievo. E la scelta è facile se si pensa al significato più semplice che da sempre i compiti hanno avuto, o avrebbero dovuto avere.
E cioè far esercitare conoscenze apprese a scuola. Questo è il punto di svolta. L’esercizio a casa o lo studio servono a rendere stabili conoscenze che la scuola, il docente.., ha trasmesso, facilitato, concorso a far apprendere..…
Demandare ai compiti a casa ciò che la scuola deve insegnare è l’errore maggiore sia per i limiti che comporta verso l’apprendimento stesso che per i limiti motivazionali a sentire il continuum educativo tra famiglia e scuola.
E in ogni caso la mole di lavoro assegnato a casa deve essere commisurata all’età e al tempo già dedicato alla scuola.
Da docente dunque mi permetterei di rassicurare i docenti: non importa la qualità e la quantità dei contenuti per fare un bravo insegnante, ma la qualità dei metodi di trasmissione del sapere.
E da genitore mi permetterei di incoraggiare i genitori ad essere alleati del bambino contro la fatica di imparare e contro l’errore. Bisogna far sentire che si è dalla loro parte, ma sempre in linea, in sinergia con la scuola. Lasciarli soli in una stanza a studiare non va bene, ma è altrettanto sbagliato fare i loro compiti: bisogna star loro vicino, senza sostituirsi, si deve partecipare riconoscendone l’impegno e gratificandoli quando riescono nel loro lavoro. E se i compiti sono troppo difficili? Meglio avvertire serenamente l’insegnante: «La prego di spiegare di nuovo l’esercizio perché il mio bambino da solo non è in grado di svolgerlo».
E a tutti, docenti e genitori, raccomando un principio che io stessa utilizzo di fronte ad ogni bambino che aiuto: incoraggiare a farcela ottiene sempre il meglio da ciascuno, qualunque sia la difficoltà da affrontare. E’ quello che gli esperti chiamano «carezza educativa»: il riconoscimento dell’impegno e delle competenze acquisite dal bambino ne amplifica la capacità ricettiva e la motivazione alla fatica dell’apprendere.
Sono una mamma oltre che un esperto di psicologia dell’apprendimento e la mia risposta è influenzata da entrambi i ruoli che vivo.
Da mamma sento anche io la preoccupazione di molte famiglie che vivono a volte con fatica l’impegno dei compiti a casa. Ed è una fatica dovuta almeno a due motivi diversi: c’è chi si lamenta per il tempo prolungato che i propri figli devono passare sui libri, e chi si lamenta perché non è obiettivamente in grado di capire come aiutarli, dal momento che le attività didattiche moderne sono lontane e diverse da quelle che ovviamente abbiamo ricevuto nel passato. Ricordo la discussione di una bellissima tesi di laurea a cui ho assistito, nella quale si descriveva un’indagine su di un campione di centinaia di famiglie italiane, il 67 per cento delle quali diceva di vivere con stress l’impegno dei compiti scolastici. Anzi misurando tale stress con una scala come quella della febbre, la temperatura superava i 38° per due famiglie su tre. Soprattutto nel passaggio tra le scuole primarie e le secondarie. Per fortuna tali indici ci dicono anche che per il 33% delle famiglie intervistaste i compiti rappresentavano un impegno a giusto carico.
Il problema, da esperto dell’apprendimento, credo sia proprio qui: il giusto carico fa la differenza. E anche in questo caso il giusto carico è da intendersi sia in termini quantitativi che qualitativi.
Al riguardo vorrei dire alcune cose.
Inanzitutto quanti compiti dare: gli studi di psicologia cognitiva hanno dimostrato che se è necessario esercitare i meccanismi dell’apprendimento, per stabilizzare e facilitare il recupero delle conoscenze acquisite, superare un certo numero di ore di studio è inutile e rischioso. Ne può derivare infatti un apprendimento di breve durata, apparente, che affatica il sistema cognitivo e lo rende incapace di recepire nuove cose il giorno seguente. Non solo, la motivazione all’impegno, e alla competenza, rischiano di affievolirsi, di lasciare il posto al fare tanto per fare, o peggio ancora al fare per paura delle conseguenze, non ultime l’insuccesso stabile e la disistima.
Dunque fondamentale dal punto di vita educativo diventa quali compiti dare e come farne fare tesoro all’allievo. E la scelta è facile se si pensa al significato più semplice che da sempre i compiti hanno avuto, o avrebbero dovuto avere.
E cioè far esercitare conoscenze apprese a scuola. Questo è il punto di svolta. L’esercizio a casa o lo studio servono a rendere stabili conoscenze che la scuola, il docente.., ha trasmesso, facilitato, concorso a far apprendere..…
Demandare ai compiti a casa ciò che la scuola deve insegnare è l’errore maggiore sia per i limiti che comporta verso l’apprendimento stesso che per i limiti motivazionali a sentire il continuum educativo tra famiglia e scuola.
E in ogni caso la mole di lavoro assegnato a casa deve essere commisurata all’età e al tempo già dedicato alla scuola.
Da docente dunque mi permetterei di rassicurare i docenti: non importa la qualità e la quantità dei contenuti per fare un bravo insegnante, ma la qualità dei metodi di trasmissione del sapere.
E da genitore mi permetterei di incoraggiare i genitori ad essere alleati del bambino contro la fatica di imparare e contro l’errore. Bisogna far sentire che si è dalla loro parte, ma sempre in linea, in sinergia con la scuola. Lasciarli soli in una stanza a studiare non va bene, ma è altrettanto sbagliato fare i loro compiti: bisogna star loro vicino, senza sostituirsi, si deve partecipare riconoscendone l’impegno e gratificandoli quando riescono nel loro lavoro. E se i compiti sono troppo difficili? Meglio avvertire serenamente l’insegnante: «La prego di spiegare di nuovo l’esercizio perché il mio bambino da solo non è in grado di svolgerlo».
E a tutti, docenti e genitori, raccomando un principio che io stessa utilizzo di fronte ad ogni bambino che aiuto: incoraggiare a farcela ottiene sempre il meglio da ciascuno, qualunque sia la difficoltà da affrontare. E’ quello che gli esperti chiamano «carezza educativa»: il riconoscimento dell’impegno e delle competenze acquisite dal bambino ne amplifica la capacità ricettiva e la motivazione alla fatica dell’apprendere.
(Panorama, 13 aprile 2007)
Quando il colore si fonde con la creatività sembra più facile anche affrontare i problemi!
Per questo post infatti ho scelto quest'opera molto suggestiva Basterebbe chiedere ai nostri bambini cosa ci vedono per completare il tutto! Magari potrebbe essere un compito di quelli "giusti".
Pubblicato da Annamaria Gatti
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