Pubblico il chiaro contributo di Daniele Novara. (Avvenire, 30 maggio 2025)
Con la tragica morte di Martina Carbonaro, abbiamo probabilmente toccato uno dei punti più bassi nella spettacolarizzazione del dolore, della crudeltà e dell’inconsapevolezza esistenziale. Un livello che lascia davvero senza fiato.
C’è da chiedersi: che bisogno c’è? Possiamo ancora parlare di informazione o siamo ormai nel regno dello spettacolo, dove per qualche clic in più si è disposti a provocare danni profondi e duraturi, superando quella “linea rossa” che separa il dovere di cronaca dal voyeurismo. Una soglia oltre la quale la tragedia viene teatralizzata, in un racconto che parla non all’intelligenza delle persone, ma ai loro strati più arcaici e primitivi.
Non pretendo che la cultura mediatica abbia una funzione educativa o pedagogica, ma da sempre il giornalismo ha seguito dei canoni etici. Ricordo, ad esempio, il caso dei lanciatori di pietre dai cavalcavia, atti che causarono persino delle vittime. In quel contesto, i media compresero il rischio di emulazione e interruppero la spettacolarizzazione degli eventi. Il fenomeno si spense.
Oggi, invece, sembra che il clamore sia diventato l’unica
bussola. Un vortice di interviste, ricostruzioni, insistenze su familiari delle
vittime e degli autori di reato. Un tourbillon interminabile che finisce per impedire,
salvo rare eccezioni, una vera riflessione, perché le ragioni si perdono nel
mondo del disadattamento e dell’immaturità.
Da pedagogista, mi interrogo anche su un’altra questione: ha
senso parlare di fidanzamenti a 13 o 14 anni? Che significato può avere una
relazione esclusiva, totalizzante, in un’età in cui il cervello non è ancora
strutturato per gestire la complessità relazionale? Non si tratta forse, sotto
mentite spoglie, di un ritorno a un passato in cui le ragazze venivano
“consegnate” a un fidanzato con prospettive di matrimonio precoce?
Questi legami precoci, carichi di gelosia e dipendenza, non
sono sostenibili per adolescenti che non possiedono ancora la maturità
necessaria per gestire l’intensità emotiva di una relazione. Le famiglie dovrebbero
evitare di sostenere o legittimare queste “coppie” che mimano i modelli adulti
senza averne i prerequisiti cognitivi ed emotivi. È un tema di sviluppo
neurocelebrale, non di morale.
Come ribadisco anche nel mio libro "Mollami", ciò che è
prioritario in questa fase della vita è la socialità. Stare nel gruppo, vivere
la compagnia, fare esperienze allargate: lo sport, il gioco, la solidarietà, lo
studio, la scoperta.
L’adolescenza è il tempo dell’apertura, non della chiusura
nella dimensione esclusiva e prematura di una “vita di coppia” che non può che
risultare disfunzionale. Serve una cultura che sostenga l’adolescenza e ne
valorizzi le opportunità.
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