sabato 29 novembre 2025

Storia del cucciolo Bach. Un romanzo all'insegna del divertimento, dell' avventura con pet terapy e dintorni.

 




Oggi ho incontrato bambini e bambine e raccontato loro la storia del cucciolo Bach. 
Nei loro occhi ho riletto nuovamente la sete dell'incontro, il desiderio di contare per chi è lì per te. 
"Mi leggi un libro?" torna a diventare "Stai con me?"
Bach ci ha permesso di tornare a creare la magia. 
Grata alla biblioteca di Lonigo per questa bella occasione. 
Grata ai bibliotecari che hanno collaborato a questo evento.

Un volume per tutti, bambini/e e ragazze/i, da leggere autonomamente o da ascoltare da voce narrante. Dagli 8/9 anni in poi, secondo il proprio amore per la lettura e il mondo dei cuccioli, degli animali... 

A quest'opera io ed Elisabetta Basili, sensibile e talentuosa illustratrice di altri miei libri, abbiamo dedicato molta cura. Doveva essere davvero un bel libro da gustare, per cui appassionarsi e scoprire cosa significhi accogliere un cucciolo, averne cura e come una presenza così possa trasformarsi in un dono reciproco di grande impatto per l'esistenza. Qualcosa che in tantissimi possono condividere per divertirsi, emozionarsi e farne uno strumento educativo. Una storia vera, semplice, ma anche straordinaria, come è appunto la vita di ciascuno a saperla vedere e scoprire. 

Riporto volentieri l'efficace commento editoriale:

"Bach è un cucciolo intraprendente. Impara molti segreti sulla vita, dopo aver lasciato mamma e fratellini, per essere adottato da Cristina, una bambina che ha imparato come fa bene prendersi cura di un amico a quattro zampe. Il buon cuore e il coraggio faranno scoprire a Bach molti altri amici, fra cui Mino che, grazie all’incontro con il cucciolo e al suo affetto, riuscirà finalmente a parlare. Un racconto che valorizza l’accoglienza, la diversità e la cura delle relazioni per superare il disagio, anche con l’aiuto di un amico a quattro zampe.

Questo racconto accompagna un bambino o una bambina a scoprire la bellezza della compagnia di un cagnolino, con la sua storia e la sua scoperta del mondo degli umani, sviluppando l'empatia e responsabilità verso gli animali, che diventano occasione di buone prassi per guarire, per ritrovarsi e per relazionarsi. Uno strumento per comprendere attraverso il racconto quale ruolo può avere la pet terapy."

A questo link tutte le informazioni utili. A presto!

https://www.amazon.it/dp/B0DR35S6Z5?ref_=pe_93986420_774957520

giovedì 27 novembre 2025

Un racconto poco conosciuto di di Alessandra Jesi Soligoni

 



Nella vicentina citta di Lonigo si celebra annualmente la storica Fiera dei Cavalli. Nel 1986 ad Alessandra Soligoni venne chiesto di scrivere un racconto per la preziosa pubblicazione "Il cavallo. Percorsi di una civiltà".  

Pubblico questo toccante racconto, in cui ritrovo l'abilità letteraria della scrittrice e soprattutto la delicata attitudine di leggere i cuori e la limpida compassione per uomini e donne a cui rivolge uno sguardo denso di tenerezza. 

Alessandra Soligoni

L'ULTIMO COCCHIERE

Da “Il cavallo. Percorsi di una civiltà”

Città di Lonigo 1986         

La città era stata sbranata dalla guerra e di essa restavano in piedi pochi muri e case scoperchiate, sbrecciate dallo scoppio delle bombe, cadute a tappeto su uomini ed edifici.

Anche la stazione ferroviaria era stata colpita in pieno e quando nel '45, a guerra finita, si iniziò Ia sua ricostruzione, dopo Ia rimozione dei rossi mattoni sbriciolati, fu gettato a colate il cemento, per assicurare al nuovo edificio strutture più resistenti, mentre, estirpato il ferro dai vecchi binari contorti, come Ia gramigna dal campo, altro metallo forgiato dalle presse, fu collocato sui percorsi obbligati delle locomotive.

Molte cose cambiarono dopo il secondo conflitto mondiale. Sui treni, anche i viaggiatori erano diversi, più taciturni, meno composti, meno eleganti. Solo pochi compivano percorsi abituali, altri più che viaggiatori si sarebbero detti vagabondi, con bagaglio o senza, tanto era lo stesso perché nessuno dava a vedere di possedere ancora qualcosa. La guerra si era ingoiata tutto, anche molte porzioni di ricchezza. Così il servizio di carrozze a cavalli, che faceva capo a1la stazione ferroviaria per ricevere i passeggeri in arrivo, divenne quasi del tutto inutile. Rari erano quelli che ancora ricorrevano al cocchiere, come se la sua assenza negli anni del caos avesse prodotto un'insanabile dimenticanza nel ricordo e nelle abitudini della gente.

Appena si saranno ricucite le ferite, tutto tornerà come prima, andava ripetendosi Gildo, uno dei due cocchieri ricomparsi al loro posto nel piazzale antistante la stazione, dentro una livrea sdrucita d'anteguerra: giacca nera, lucida ai gomiti, calzoni striminziti color fumo, che avevano perduto da tempo Ia stiratura, ma nell’insieme non toglievano dignità alla divisa, che si completava di una austera bombetta sul capo.

“Tutto ritornerà come prima”, ripeteva, carezzando sul collo la sua cavalla, che sempre alla sua voce annuiva col capo, rompendo solo per un momento l'immobilità che la faceva sembrare una statua di gesso.

Di fatto però l'attesa dei clienti, col passare del tempo, non si ridusse, anzi andò prolungandosi rendendo quella presenza alla stazione anacronistica, comparse d'uno spettacolo d’altra epoca d'altro costume. Eppure, ben lo sapeva Gildo, che faceva ii cocchiere di professione dal lontano 1936, quanto utile era stato il suo servizio in altri anni e quanto decoro la sua carrozza ben rifinita e la sua pomellata dal bel manto chiaro, sempre perfettamente strigliato, avevano dato alle strade cittadine nell’ora del passeggio o nei giorni di festa, quando perfino dalle campagne si veniva in città per sfilare lungo il corso e far mostra della propria eleganza e di una agiata condizione borghese. Ma la ventata violenta della guerra aveva spazzato e trascinato con sé comportamenti e consuetudini, che i superstiti non sapevano o non potevano reinventare. E la vita cambiò radicalmene, anche quella di Gildo, malgrado s'ostinasse a non crederlo e continuasse a rievocare nelle lunghe soste i tempi andati e con essi figure e modi scomparsi, demoliti anch'essi, come le case, dalla distruzione e dai bombardamenti. Pure la toponomastica urbana era stata sconvolta e buttate all’aria vie e piazze, tanto che a volte il maturo cocchiere, ritentando certi percorsi o aggirandosi fra edifici crollati e altri di nuova costruzione e incontrando slarghi improvvisi sui cumuli di macerie, provava un inconsueto disorientamento, accompagnato a smarrimento. Aveva l’impressione di trovarsi in un'altra città, una città straniera, non nella sua, di cui conosceva pietra su pietra e che aveva imparato a percorrere ad occhi chiusi. E solo ad occhi chiusi ormai riusciva a ritrovarla come era intatta, con il suo largo corso che conduceva alla piazza centrale, fiancheggiata da portici e negozi eleganti e facciate ornate di poggioli, di ampie finestre, di cornicioni decorati.

Di certo, pari smarrimento aveva provato Bella, la sua cavalla, quando rimossa dalla stalla e riattaccata alla carrozza, dopo la forzata inattività della guerra, fu riammessa in strada perduti i punti di riferimento lungo il percorso, cambiato il tracciato della via, scomparse le facciate di edifici familiari, fu costretta ad affidarsi interamente alle redini e ai segnali trasmessi dalla mano del padrone. Sopravvissuta a fatica alle prolungate privazioni, Bella, che da tempo certamente non era più tale, aveva perduto la lucentezza del manto grigio in cui s'erano innestate chiazze di pelo più rado, come la ruggine sul ferro, e aveva smesso la fierezza del collo, che non teneva più eretto ma ripiegava debolmente verso il basso, segno di una stanchezza che le era piombata addosso con gli anni e con gli stenti.

Non erano bastate le premure di Gildo e le parole d'incoraggiamento che l'uomo le rivolgeva ogni giorno, mentre le rinnovava il letto di paglia o sedeva sullo sgabello accanto a lei, nella stalla, a vederla mangiare le ridotte razioni di biada o le manciate di fieno, frutto di una difficile ricerca nelle campagne circostanti.

“Vedrai, Bella, tornerà anche il nostro momento. Questa maledetta guerra finirà, deve finire”, ed insieme avevano nutrito quella vaga speranza, anche in mezzo alla morte e alla distruzione.

“Ti ricordi di Vincenzo, quel ragazzo che saltandomi al fianco, a cassetta, non sapeva dove tenere le gambe, che si erano allungate troppo? Ora le tiene ben distese, povero ragazzo, sotto due spanne di terra. Rimasto anche lui al fronte, come Tonino...”.

Tonino non era il figlio di Gildo, perché Gildo non si era mai sposato, ma era stato il suo nipote prediletto, a cui aveva sempre pensato di lasciare il mestiere e quel poco di eredità, con la carrozza" che era ben conservata e ancora di qualche valore. Invece Tonino se l'era preso la guerra e del povero giovane neppure il corpo era stato restituito. Per questo, il Giorno dei Morti Gildo si recava al cimitero a portare i crisantemi su una fossa dimenticata. Tutti i morti sono uguali, pensava. Tutti i morti sono come un solo morto, il suo Tonino.

Bella capiva e in risposta abbassava ancor più il collo. Gildo le lisciava la criniera, come una madre che vuol consolare d'un dolore la propria creatura e tentava di riprendere sottovoce un vecchio ritornello, che in altri tempi aveva cantato, accompagnandosi col mandolino. Non per nulla lo avevano soprannominato “Mandolin” e quell'appellativo aveva del tutto oscurato il suo vero nome, tanto che per tutti era diventato solo Mandolin, anche per i suoi clienti. Quella del mandolino, di fatto, era stata la seconda grande passione della sua vita. La prima, senza dubbio, era quella dei cavalli. Ma l’una e l'altra si legavano intimamente fra loro e avevano radici nella sua infanzia, nelle sue origini contadine, perché la sua famiglia aveva sempre lavorato la terra e sudato sui campi del padrone, a mezzadria.

Gildo era nato in una vecchia casa rurale, sperduta nella campagna, nel grande camerone sopra la stalla, sul sacco di cartoccio rinnovato in autunno dalla madre, dopo la raccolta del granturco.

E quando fu in grado di distinguere i rumori e le voci della casa, assieme a quella materna imparò a riconoscere il lungo muggito delle mucche, che saliva dal basso e il nitrito del grosso cavallo da tiro, di recente introdotto nella stalla. E quel nitrito gli entrò nell'anima. Cominciò da fanciullo a condividere coi maschi della casa l’ orgoglio per quell'acquisto del padrone, che aveva sostituito al bue lento e pesante un esemplare di razza belga, per il tiro e l'aratura. Non esisteva famiglia di mezzadri nel raggio di dieci chilometri che vantasse nella stalla un capo come quello.

Gildo accompagnandosi al nonno, imparò la cura del cavallo, il rito mattutino della pulizia, il linguaggio dei gesti, le leggi del lavoro in coppia con l'animale, la soddisfazione della fatica alleviata e condivisa. E quando nel filò, la sera, ascoltava gli adulti narrare delle quotidiane vicende, nessun racconto teneva lontano da lui il sonno quanto le prodezze del nuovo cavallo, la sua forza, il suo tiro possente, che rimuoveva senza sforzo il pesante aratro, affondato fra le zolle. E certe volte, a lavori compiuti, nel clima di festa che accompagnava il raccolto, il nonno staccava dalla parete della cucina il mandolino, che assieme al cavallo dava prestigio all'intera famiglia, e cominciava a pizzicare le corde con le grosse dita ruvide, ricavando dallo strumento suoni striduli e lamentosi, come il pianto dell'ultimo nato. Ma per i commensali attorno al lungo tavolo di cucina cosparso di boccali, quella era una melodia, un prodotto e un evento miracoloso, come la nascita del grano o l'apparizione del sole, dopo la notte.

Quando il nonno morì, Gildo ereditò il mandolino ma non il cavallo, perché la brava bestia apparteneva al padrone, che decise di portarla al vicino foro boario, in giornata di mercato e di venderla. Così la famiglia perdette molto del suo prestigio e si smembrò, cambiando casa e vita e lavoro. Anche Gildo allora dovette prendere la sua strada, con ben poco di suo, se non quel mandolino e l'amore per i cavalli.

Vennero per lui anni duri, di bracciantato e sacrifici, ma finalmente nel '36 si presentò l’occasione attesa e Gildo non se la lasciò sfuggire.

La società delle corse dell'Ippodromo cittadino aveva messo in vendita una cavalla, allevata per il trotto, ma rivelatasi di carattere bizzarro e particolarmente ombroso che la portava ad impennarsi per un nonnulla. Dopo mesi d'addestramento s'imbizzarriva ancora all'improvviso e scalciava come al primo anno, tanto che s'era spezzata un garretto contro la staccionata e non riusciva più a tenere il trotto con regolarità, facendosi squalificare in pista dalla commissione per tre volte consecutive.

Un pessimo investimento, insomma, per i proprietari che decisero di disfarsene, dopo un ennesimo tentativo di recupero fallito. Gildo invece lo considerò un vero affare da non perdere e ancor più se ne convinse quando vide coi propri occhi la cavalla, che gli sembrò bellissima e di linea perfetta ed altezzosa, proprio come l'aveva sempre pensata. Comperandola, sentiva di soddisfare tutte le sue aspirazioni e da quel momento non chiese altro che di fare il cocchiere e di porsi alla guida di una carrozza degna di lei e di quel nome. Di fatto, con l'acquisto, Gildo salvò la cavalla dal macello e Bella gliene fu sempre riconoscente. Con lui imparò l'obbedienza, e negli anni di convivenza che seguirono, non gli si ribellò mai. E non Io fece neppure quando, dopo la guerra, fu ricondotta davanti alla stazione, sul piazzale percorso da crepe profonde, dove le buche erano state malamente colmate dai calcinacci. Appena qualche sobbalzo alla carrozza, ma nessuna impennata. Anzi Bella riprese il suo vecchio posto con pazienza, ignorando, più di quanto non sapesse fare il suo padrone, le trasformazioni e i cambiamenti intervenuti, e fors'anche la distruzione passata.

Riaffondò per metà il muso ne1 sacco di biada e lasciò andare mollemente la muscolatura del corpo, ormai senza fremiti. Un'altra carrozza si affiancò a quella di Gildo: il compagno, il grosso e vecchio “Fantin”, lui pure resuscitato dalle macerie della città con cocchio e cavallo, aveva ripreso quel gramo mestiere, spinto dalla minaccia della disoccupazione. Col suo ronzino, nell'ultimo tempo si era rassegnato ai trasporti più umili: traslocava mobili e masserizie, caricava materiale d'ingombro destinato al macero o alle discariche, tanto per non stare a morire d'inedia nell'attesa d'un vero cliente, ma soprattutto per rimediare quattro soldi per la biada del cavallo e per un bicchiere all'osteria.

Su queste commissioni Gildo non era molto d’accordo, gli sembravano una contaminazione del mestiere.

“A ognuno ii suo compito” borbottava scuotendo il capo e disapprovando l'impiego che il compagno faceva della sua carrozza e della sua divisa.

“Non si mangia con l’ambizione. Bisognava pur vivere in qualche modo...”. Fantin si era creato la sua filosofia, in tanti anni di cassetta.

“Prendi tutto quello che puoi, ciò che conta è sopravvivere, senza dipendere da nessuno, neppure dai figli”. E quella era diventata la sua legge, a cui aveva adeguato anche la vita del cavallo. Il giorno che quel ronzino non ce l'avesse più fatta a tirare, senza frusta, l'avrebbe lasciato al suo destino, che non è poi molto diverso per gli uomini e gli animali.

Gildo aveva smesso di contraddirlo e gli bastava vederlo tornare alla stazione, con la sua carrozza sgangherata, per scambiare con lui due parole e bere assieme un bicchiere, tanto per scaldarsi, all'osteria di fronte, anche se di recente la mescita era stata rinnovata e non esponeva più l’insegna di “Osteria del cavallino” ma una moderna scritta al neon, secondo una nuova moda. A dire i1 vero, se non fosse stato per Fantin che riusciva a trascinarvelo, Gildo in quel locale così trasformato non avrebbe più messo piede.

“Che vi servo, due calici?”.

“Due ombre di rosso” ribatteva prontamente al barista il grosso cocchiere, mentre soffiava sulle mani paonazze, per riportarle al giusto calore.

Gildo non si era mai spiegato come quel barile d’uomo, con quell'enorme corporatura, fosse stato davvero, un tempo, un agile fantino. E d'esserlo stato e d'aver condotto in pista fior di cavalli, dei veri purosangue, il compare glielo aveva giurato sul nome della moglie, che il Padreterno aveva già accolto nella sua gloria. D'altronde il soprannome di Fantin, che gli era stato appiccicato in gioventù e che da allora non aveva più smesso, toglieva ogni dubbio sul suo passato.

Gildo gli si era affezionato anche per questo e gli perdonava l'abitudine di alzare il gomito, acquisita negli anni, e la trascuratezza nei modi e nella persona, in contrasto col mestiere di cocchiere, che richiedeva invece una buona dose di compostezza e decoro e rispetto della convenienza. Di fatto, Fantin era una pasta d'uomo, sempre pronto a dare una mano e a chiudere un occhio perfino con i numerosi monelli, che accorrevano al passaggio della carrozza (carrozza, si fa per dire) e facevano codazzo, sedendo sulla barra posteriore e rimanendo con le gambe penzoloni, per fare un giretto gratis. Sia cocchiere che cavallo percepivano quella presenza in appendice, ma entrambi fingevano di non sentire e rallentavano il passo, perché i passeggeri clandestini non perdessero l'equilibrio, a rischio di rotolare sulla strada. Specialmente dopo la guerra, per quei ragazzini nati negli anni duri, le carrozze rappresentavano una sorpresa e una rarità.

“Hai portato anche principi e principesse?” chiese una volta una bambina, dal faccino pallido e incantato, a cui il nonno offrì un giretto col cavallo per le vie della città. Era una giornata limpida, che invitava all'avventura.

E Fantin, in risposta, la riempì di emozione raccontando che sul suo cocchio una volta aveva preso posto perfino un re, con la consorte al fianco, la regina, che portava il diadema in testa e aveva Io strascico che scendeva fino a terra, coprendo il predellino.

Altra cosa era adesso, che re e principi erano scomparsi, e non si incontravano per la strada che poveri diavoli.

Gildo, a quell'uomo fantasioso doveva i pochi momenti allegri della sua giornata e le occasioni per ridere, a sentirlo raccontare delle passate avventure. Ma certo la più comica di tutte era la fiorita descrizione di quando era finito in un fossato, con cavallo e carrozza, mentre mostrava con troppa disinvoltura le bellezze della campagna ad una vivace signorina di città, in cerca d'aria fresca e di evasione.

Negli ultimi tempi però, il colore dei suoi racconti si era sbiadito e con esso la volontà di ricordare.

Così un giorno, quasi all'improvviso, Fantin ruppe decisamente con il suo passato e annunciò la decisione di ritirarsi, cedendo carrozza e cavallo. Anzi a dirla tutta, aveva fatto sua la decisione del figlio, che aveva messo in vendita quel povero ronzino rinsecchito, per alleggerirsi dalle spese del mantenimento e dell'affitto del posto in stalla.

Gildo, all'annuncio, provò una fitta al cuore, anche se si convinse presto che era più giusto fare la fame da solo che in due. Quel giorno stesso, per reagire allo scoramento, andò a comprare una coperta nuova per Gilda, per mostrare alla cavalla e a sé stesso che non bisognava mollare, che l'impegno continuava anche se erano rimasti soli, sul piazzale della stazione, ad aspettare l’inverno.

“Segui il mio esempio, chiudi baracca e burattini”, lo esortò ripetutamente Fantin, prima di andarsene. “Che stai qui a fare?  Forse aspetti ancora che ritorni la tua bella signora, a chiederti un giro in carrozza?”.

Gildo, alla battuta del tutto inaspettata, si confuse e diventò rosso in viso, come per una trasfusione troppo rapida di sangue e non riuscì a sorridere. Anzi la sua confusione divenne via via maggiore per la quantità di sentimenti che quel ricordo sollevò nel suo petto, come la burrasca che rimuove i fondali marini e rende torbida l'acqua ed impossibile all'occhio umano penetrarne i segreti.

La storia si era risaputa in giro, ne avevano parlato in molti, nell'ambiente dell'osteria e delle carrozze. E qualcuno aveva riso, alle sue spalle, e avanzato dell’ironia sul fatto che una dama dell'alta società, una giovane signora con cappello e veletta, avesse scelto proprio lui, come cocchiere, per il suo giro abituale in città. Non era stato un sogno.

“Mi dicono che sapete suonare il mandolino... È questa, dunque, la ragione di un nome tanto curioso!”. Il sorriso delle labbra e degli occhi della donna, imbrigliato dalla veletta di tulle ed un'ombra calata sulla fronte dall'ampia tesa del cappello.

“Non mi burli, so solamente pizzicare le corde...”.

“Anch'io, sapete, Mandolin (posso chiamarvi così?) anch'io amo suonare. Il violino. La musica è il mio mondo, è tutto per me”.

Quel mondo incantato, che portava con sé, percorrendo a piedi il lungo viale attraverso il parco, fino al cancello, dove la carrozza attendeva. Tutti i giorni, alla stessa ora del pomeriggio, e in quello spazio, fra la bianca facciata della villa sullo sfondo e il cancello, rimaneva chiuso, agli occhi di Mandolin, il mistero di quella donna, della sua esistenza. Era l'anno in cui il mondo si preparava alla guerra. Le carrozze s'incrociavano ancora sul corso e Bella era bella davvero, perfino superba quando portava la signora: manteneva un trotto lento, regolare, che favoriva le confidenze.

“Chi vi ha insegnato, Mandolin, a suonare? Chi è stato il vostro maestro?”.

“Io, un maestro? Io, figlio di contadini...”. Nessuna vergogna, solo pudore. “Il nonno cantava in chiesa, la domenica. E tutti dicevano che sapeva suonare il mandolino, meglio di chiunque altro al paese”.

Che emozione parlare del nonno con quella dama! Lei così fine, così delicata, come avrebbe potuto anche solo immaginare le grosse dita ruvide del rozzo contadino, che afferravano le corde dello strumento come se avessero voluto strapparle.

“Non voglio altro cocchiere che voi, per la mia passeggiata in città. Voi mi siete simpatico, Mandolin. A domani, dunque, non mancate”.

Gildo, per un anno intero non mancò all’appuntamento, finché non venne la guerra a porvi fine. Un giorno di giugno, all'ora fissata, la signora non comparve. E non comparve sul viale neppure nelle ore e nei giorni successivi. Gildo non la vide più.

Qualcuno gli riferì che gli occupanti della grande casa in fondo al viale erano tutti improvvisamente scomparsi: forse fuggiti, o forse arrestati, perché erano ebrei.

Gildo ritornò molte volte, in seguito, davanti al cancello chiuso e Bella lo assecondava paziente, s'arrestava, attendeva. A volte rizzava le orecchie, per alimentare l'illusione.

“Hai sentito anche tu, Bella? Mi è sembrato di udire le note di un violino”. Poi se ne tornava lentamente a casa, con la carrozza mota, Mandolin a cassetta, con la bombetta rigida in capo e il freddo nelle ossa.

A guerra finita, un'altra famiglia occupò la grande villa e si videro dei fanciulli giocare in giardino e un'auto di grossa cilindrata entrare e uscire dal cancello, coprendo ogni impronta, ogni orma sul viale.

Gildo dimenticò, o credette di dimenticare. Poi, d'un tratto, quella frase di Fantin: la battuta che colpisce e la mente che precipita nei ricordi. Inutile il tempo trascorso, inutile il silenzio. Davanti a lui ancora tante ore, tante sere lunghe per pensare in solitudine, per ricordare, per fantasticare.

“Che ne diresti, Bella, se ce ne tornassimo a casa? È buio ormai, è tardi. La giornata, se Dio vuole, è finita”. La cavalla annuì. Gildo s'arrampicò a cassetta, avvolse il pastrano attorno alle spalle (d'inverno anche i cocchieri hanno freddo) e con una mano afferrò le briglie, mentre nell'altra impugnò la frusta. Uno schiocco debole a tagliare l'aria umida della sera.

“Via Bella, a casa”.

Le ruote si mossero sul selciato irregolare e il mezzo traballò, superando una buca più profonda di altre. I fari delle automobili gettarono i loro fasci di luce irrispettosi sull'uomo a cassetta, che conduceva una vecchia carrozza in mezzo al traffico cittadino, ogni giorno più intenso.

“Questa non è più vita” mormorò il cocchiere, girando gli occhi abbagliato “questa non è più vita”.

Trascorse ancora qualche tempo, forse mesi o un intero anno. Poi un giorno, di colpo, la città si accorse che nel piazzale della stazione non sostavano più le carrozze. neppure una. Anche l'ultima era scomparsa. I taxi, nello spazio loro riservato e delimitato dalle strisce gialle, erano passati da due a quattro e la SIP aveva installato la colonnina con il telefono, per la chiamata.

Mandolin e la sua Bella forse avevano cambiato città, o forse continente. O semplicemente si erano posti in cammino, assieme, come sempre, alla ricerca della gentile signora che suonava il violino, per ritrovarla, e offrirle ancora il loro servizio. Quasi certamente si erano diretti al luogo dove vanno a finire tutte le cose perdute e fra esse i momenti felici dell'esistenza.

 

Pubblicato da Annamaria Gatti

mercoledì 26 novembre 2025

Alessandra Soligoni una raffinata scrittrice innamorata del mondo giovanile

 

                                                      ALESSANDRA JESI SOLIGONI

Lorenza Farina, nota scrittrice per l'infanzia, ha conosciuto molto bene Alessandra Soligoni, recentemente mancata,  e ha voluto renderle testimonianza con questa presentazione, che riporto con emozione.

Ho conosciuto anch'io Alessandra Jesi Soligoni. Ho recensito alcuni suoi libri fortunati e mi ha offerto il suo tempo commentando con autorevolezza alcune mie pubblicazioni.  Ho sempre colto le belle sfumature del suo intenso e dolce carattere e l'ho ammirata per l'impegno trasfuso nel valorizzare il ruolo pedagogico  della letteratura per le giovani generazioni. Lo faceva amabilmente e con grande competenza anche nei suoi numerosi libri, come ci illustra bene Lorenza Farina. 

Di lei conservo un ricordo affettuoso e una grande stima,  e non solo professionale: la gentilezza e la profonda attenzione alle persone che incontrava restano un dono per tutti noi. Indimenticabile.

 

In ricordo di Alessandra

ALESSANDRA JESI SOLIGONI, sensibile e apprezzata scrittrice per bambini e ragazzi, il 12 ottobre scorso è mancata all’affetto dei suoi cari e di quanti l’hanno conosciuta e amata in vita.

Ho avuto modo d’incontrarla tanti anni fa duranti gli incontri di promozione dei suoi libri presso le biblioteche del Sistema bibliotecario vicentino.  È nata subito una profonda amicizia che si è consolidata nel tempo, nutrita dalla comune passione per le storie e per la letteratura per l’infanzia.

Trevigiana, dopo aver insegnato a lungo materie letterarie presso la scuola secondaria di Preganziol (TV), si è dedicata con successo alla scrittura. Più di trenta libri al suo attivo, che hanno spaziato in vari generi letterari: romanzi, raccolte di racconti, albi illustrati, opere teatrali. Alcuni hanno ricevuto importanti riconoscimenti: il più celebre “L’eredità dei Bisnenti” (premio Europeo 1982) e poi “Il mondo di Rass” (Bancarellino 1987) e “Tante storie nello zaino” (Premio Città di Bitritto 2002) .

Alla scrittura Alessandra ha affiancato un lungo impegno di collaborazioni e interventi con Enti, Scuole e Istituzioni culturali, conducendo progetti educativi e attività a sostegno e promozione della lettura anche come membro del consiglio dell’IBBY Italia (sedi di Firenze e Padova).

Appassionata ambientalista, negli ultimi anni della sua vita ha fatto della difesa del parco di villa Albrizzi Franchetti di Preganziol la sua strenua battaglia. Donna tanto tenace quanto sensibile, amava la natura e il verde, l’arte e la bellezza.

Nella sua ricca produzione letteraria ha sempre dedicato una particolare attenzione alle problematiche che ruotano attorno al “pianeta adolescenza”, frutto anche della sua trascorsa esperienza di docente. Abile nell’offrire il punto di vista di un ragazzo d’oggi, alle prese con la ricerca di sé, sondandone il variegato mondo interiore, la sua era una voce che sapeva volare oltre gli steccati ideologici e culturali, affrontando temi legati anche all’attualità, come quella del mondo dei migranti che lasciano tutto in cerca di una vita migliore.

“Ma per chi scrive lo scrittore? Per se stesso o per i suoi lettori?” le fu chiesto durante uno dei suoi incontri nelle scuole. “Scrivo per stabilire un ponte fra me e il lettore” fu la risposta di Alessandra “dal quale mi aspetto una verifica, un riscontro, perché un libro ha sempre una funzione di dialogo silenzioso fra la mente attiva che legge e il pensiero scritto sulla carta. Non è importante andare a tutti i costi incontro al prossimo, ma esprimere realmente ciò che si sente, ciò che si ha dentro. Mi piace pensare al legame immaginario che si viene a creare tra me e il mio futuro lettore e al modo in cui egli coglie qualcosa che non c'è nella storia”.

Ora questo legame continuerà oltre il tempo e oltre lo spazio, grazie ai suoi libri dove si riflette la sua anima poetica, rendendoli dei “piccoli, compiuti sogni”.

Grazie, cara Alessandra, il tuo ricordo e il tuo dolce sorriso rimarranno sempre nel mio cuore.

                                                                                                                  Lorenza Farina

 

pubblicato da Annamaria Gatti


martedì 25 novembre 2025

Quanto è importante giocare con i figli.



L'IMPORTANZA DI GIOCARE CON I FIGLI

di Dorotea Piombo

fonte Città nuova 

21  novembre 2025 

Il gioco tra i genitori e i figli è fondamentale per il benessere emotivo e relazionale dei bambini. La vita frenetica può ridurre questi momenti, creando distanza e segnali di disagio. Ritagliare spazi di gioco nella routine rafforza i legami e nutre una preziosa memoria affettiva 

Quanto tempo dedichiamo davvero ai nostri figli, al di là degli obblighi quotidiani e delle corse tra casa e lavoro? È possibile che il gioco, spesso considerato superfluo nella routine adulta, rappresenti invece la chiave per aprire uno spazio emotivo condiviso, profondo e trasformativo? E cosa accade quando la mancanza di tempo diventa una costante, relegando i momenti di gioco ad un lusso raro? 

Viviamo in una società in cui la produttività è costantemente esaltata, in cui essere sempre impegnati è spesso sinonimo di successo. Le ore di lavoro si allungano, le distrazioni tecnologiche aumentano e i momenti di qualità in famiglia sembrano ridursi sempre più. 

Eppure, il tempo trascorso giocando con i figli non è solo svago: è costruzione attiva della relazione, terreno fertile per lo sviluppo psicofisico dei bambini, spazio in cui l’attaccamento trova voce e forma.

NICOLETTA E MARCO 

Nicoletta e Marco sono entrambi professionisti di successo. Lei lavora come avvocato in uno studio rinomato della città, mentre lui è impegnato come project manager in una multinazionale. Hanno due figli, Chiara di 7 anni e Alessandro di 4. La loro settimana si consuma tra sveglie all’alba, appuntamenti di lavoro, e-mail a cui rispondere e una lista di impegni che sembra non finire mai. La sera, rientrano a casa esausti. Mentre i bambini li aspettano pieni di entusiasmo, sperando in una partita al memory o una costruzione con i LEGO, Nicoletta e Marco si rifugiano nelle ultime pratiche da chiudere, preparando la cena velocemente e rimandando il gioco a un momento indefinito. I fine settimana, invece di essere dedicati alla famiglia, sono spesso impegnati in commissioni domestiche o scadenze lavorative. «Non abbiamo tempo, magari domani», è la frase che Chiara e Alessandro sentono troppo spesso.

Con il tempo, Nicoletta inizia a notare che Chiara è più silenziosa, meno incline a raccontare le sue giornate, mentre Alessandro diventa più capriccioso e irritabile. L’assenza di momenti di gioco si fa sentire: i bambini cercano affetto e presenza, ma trovano barriere invisibili che li separano dai genitori. La letteratura psicologica sottolinea come il gioco rivesta un ruolo fondamentale nello sviluppo psico-fisico del bambino. Attraverso il gioco, il bambino esplora il mondo, sperimenta le regole sociali, costruisce autostima e consegue tappe evolutive cruciali. Quando il genitore si fa parte attiva nel gioco, contribuisce a creare un legame di sicurezza, favorisce la regolazione emotiva e svolge una funzione di “specchio” affettivo.

I RISCHI

La mancanza di momenti ludici condivisi porta invece rischi significativi. I bambini possono sviluppare difficoltà relazionali, insicurezza, scarsa capacità di gestione delle emozioni, irritabilità e, nel tempo, vissuti di abbandono. Sul piano corporeo, il gioco favorisce lo sviluppo motorio, la coordinazione, il rilascio di tensioni e la prevenzione di disturbi legati alla sedentarietà. Inoltre, il gioco è uno spazio privilegiato in cui genitori e figli “si scelgono” reciprocamente, si riconoscono come individui e costruiscono una memoria affettiva comune, che diventerà risorsa alla base della crescita.

UN GIORNO

Un giorno, Nicoletta riceve una segnalazione dalla maestra di Chiara, che le consiglia di fare maggiore attenzione ai segnali di tristezza e chiusura della bambina. Questo evento provoca una riflessione profonda. Nicoletta e Marco, con l’aiuto di una psicologa, riconoscono la necessità di rivedere le proprie priorità. Decidono di pianificare dei veri e propri “spazi di gioco” nella routine settimanale. Ogni giorno, dopo cena, dedicano almeno venti minuti a giocare insieme, spegnendo telefoni e TV. Il sabato mattina diventa l’appuntamento fisso per una gita al parco, dove costruire ponti emotivi, scoprire nuovi giochi e ridere insieme. Col tempo, notano cambiamenti importanti: Chiara torna ad essere comunicativa, Alessandro è più sereno. Nicoletta e Marco riscoprono il piacere di stare insieme, sentendosi meno in colpa e più soddisfatti.  Il gioco diventa il vero “centro” della famiglia, da cui scaturiscono risate, confidenze e una nuova energia. Riconoscere l’importanza del gioco è il primo passo: non è tempo perso, ma investimento nel benessere emotivo dei figli. Pianificare spazi di gioco può fare la differenza, scegliere giochi che piacciano ai bambini, coinvolgendoli aumenta la qualità del tempo condiviso.

 NON SERVE ESSERE PERFETTI

Spegnere device e distrazioni aiuta a creare uno spazio autentico, in cui la presenza è totale. Non serve essere perfetti: anche una risata spontanea, una carezza durante il gioco lascia un segno indelebile. Osservare i segnali dei figli, come silenzio, irritabilità o tristezza, permette di intervenire tempestivamente. Fare alleanza con il partner rafforza anche la coppia e la coesione familiare. Il tempo donato ai figli attraverso il gioco è un capitale affettivo che cresce giorno dopo giorno. Anche nelle famiglie più impegnate è possibile riscoprire questa dimensione autentica, capace di attivare benessere psicofisico, fantasia, fiducia e memoria condivisa. Giocare con i figli è la più potente forma di presenza: è dir loro, con i gesti e non solo con le parole: «Tu sei importante per me».


pubblicato da Annamaria Gatti

foto da iODonna

mercoledì 19 novembre 2025

Un libro per aiutarci a capire l'educazione di genere




 IDENTITA’ FLUIDE IN UNA SOCIETA’ LIQUIDA 
 di DOMENICO BELLANTONI 
 EDITRICE CITTA’ NUOVA 

Recensione di 
Annamaria Gatti 

E’ assolutamente urgente aggiornare le proprie conoscenze su tutto ciò che lo scorrere dei giorni e dei pensieri sta trasformando la realtà che viviamo. 
E se non esiste più la possibilità di trincerarsi dietro ad espressioni come “ai miei tempi” o “è così e basta”, non è procrastinabile l’impegno per ogni adulto, educatore o meno, di capire come e cosa sta ribaltando ogni aspetto della crescita e della formazione dei nostri bambini, ragazzi e giovani. 
Il nuovo libro di Domenico Bellantoni, docente universitario, psicologo e psicoterapeuta, “Identità fluide in una società liquida - educazione di genere nel contesto contemporaneo” edito da Città Nuova per i Percorsi dell’Educare, riassume in oltre un centinaio di dense pagine (e ben quindici di bibliografia) gli strumenti per aprire un sipario autorevole sul tema della definizione della propria identità, che interagisce con gli aspetti culturali occidentali e di come cioè tali caratteristiche influenzino il processo di costruzione proprio dell’identità personale e di genere nei giovani. 

Nel capitolo su cui fermo l’attenzione del lettore, dal titolo “Educare al tempo del genere: istruzioni per l’uso”, l’autore offre validi suggerimenti di natura psicoeducativa in relazione al tema della percezione e definizione della propria identità di genere. E lo fa con precise osservazioni documentate nel corso dell’esposizione nei capitoli precedenti, chiarendo lucidamente posizioni e decodificando i modelli proposti, individuando alcune proposte inadeguate presenti soprattutto in internet e riferentesi anche alla possibilità di scelte di minori senza l’accompagnamento dei genitori. 

Bellantoni riconosce la difficoltà per i genitori di educare al genere con la dovuta lungimiranza e attenzione, e offre la possibilità di trovare in questo volume una guida che, senza essere ovviamente esaustiva, dà però le indicazioni giuste e motivate per lavorarci su. Dall’accompagnamento di cura raccomandato, all’affinamento delle capacità di ascolto, dall’obbligo di conoscere e formarsi sulle dinamiche in gioco nei processi di definizione dell’identità di genere, all’approfondimento del disagio manifestato verso l’identificazione circa il genere di prima assegnazione. Dall’educazione al rispetto di ogni tipo di diversità, alla testimonianza e alla coerenza a cui è chiamato ogni educatore, e questo è tanto vincente quanto è palesata la testimonianza del proprio vissuto gioioso della relazione di genere, affettiva e sessuale. 

Restano pilastri quindi l’accoglienza e l’alleanza che è auspicabile i genitori vivano quotidianamente nella relazione educativa, evitando di esasperare la tensione che può crearsi, accompagnando invece l’adolescente in un percorso di conoscenza e di orientamento. 

E’ nell’adolescenza che si sviluppa il processo di scoperta della propria identità di genere, ed è questa l’età più fragile, e spesso in balia di messaggi soprattutto veicolati da internet, di enfasi dell’autodeterminazione riguardo alla definizione di sé. Lì è fondamentale la presenza di adulti affidabili e consapevoli. 

Vi sono adulti che si irrigidiscono e rifiutano di comprendere, altri che per quieto vivere aderiscono e sono acritici e assenti, però, scrive lo psicoterapeuta… 

“…Esiste una terza posizione caratterizzante quegli adulti che accettano di fare da ponte fra le generazioni, nella consapevolezza che non c’è progresso senza radicamento nelle tradizioni e non c’è fedeltà ai valori tradizionali che non necessiti di una loro rivisitazione in relazione al progresso scientifico sociale e culturale. Tali adulti raccolgono la sfida educativa consapevoli, ma non incatenati ai propri valori e si propongono non già per lo scontro ma per l’incontro con i giovani innescando percorso di reciproca comprensione e dialogo, stabilendo relazioni educative in cui veicolare modelli e contenuti utili alla crescita personale di sè e dell’altro “ (pag.104) 

Adulti presenti, che sanno incontrare e che sanno individuare i bisogni e le risposte più adeguate e significative per chi sta crescendo, nella cura e nel rispetto.

domenica 9 novembre 2025

Ragazzi, chi cerca la perfezione si allontana dalla felicità. Di Marco Erba, prof e scrittore

 


Ragazzi, chi cerca la perfezione si allontana dalla felicità

di Marco Erba, insegnante e scrittore

fonte: Avvenire -  8 novembre 2025

Quando si parla di problemi adolescenziali o devianza giovanile vengono in mente bullismo e trasgressioni. Ma anche l’ossessione per l’eccellenza è una forma di dipendenza.

Luciana studia tantissimo, padroneggia ogni dettaglio. Ottiene voti impressionanti in tutte le materie, con una costanza mai vista. Riempie quaderni su quaderni di appunti, le pagine dei libri di note. Non si concede una sbavatura. In classe è sempre attentissima. Ma è anche sempre imbronciata. Diffida di tutto, crede che le amiche le parlino alle spalle, è angosciata da ciò che i compagni pensano, o potrebbero pensare, di lei. Teme il giudizio altrui e, allo stesso tempo, ne è dipendente. Chiude le relazioni, non accetta errori dagli altri, come non ne accetta da sé. Non tollera quella dose di ambiguità, di falsità, di caduta che chiede misericordia presente in ogni rapporto umano. Non devono esistere sbavature né in lei, né intorno a lei.

Una volta si offre per farsi interrogare. Ha studiato tutto nel dettaglio, come sempre. Padroneggia ogni aspetto della materia, si è formata una sua opinione su ogni argomento e sa sostenerla, ha una proprietà di linguaggio strabiliante. Alla fine le faccio i complimenti, le do dieci. Torna al posto mantenendo quel suo solito broncio fino alla fine dell’ora. Mentre spiego, mi guarda storto. Mi sale la tensione: cosa sta succedendo? Cosa c’è che non va? Alla fine della lezione mi ferma, mi chiede di parlare: «Prof» mi dice, prendendomi in disparte, «lo ammetta: lei mi ha dato dieci solo perché le sono simpatica. Non è un voto meritato, è regalato. Io lo so.» Cado dalle nuvole. Mi spavento. Come può avere una percezione della realtà così distorta, così falsata? Le dico che non è vero, le motivo il voto, le spiego che era preparatissima e che quel dieci è del tutto meritato. Non mi crede: se ne va sbuffando, ostile. Luciana non è felice.

Qual è il contrario di felicità? Quando lo chiedo alle mie classi, quasi tutti mi rispondono che il contrario di felicità è infelicità. Qualcuno allarga la prospettiva, prova con altro: tristezza, insoddisfazione. Tutto vero, ma c’è qualcosa di ancora più distruttivo, di ancora più opposto alla felicità, di ancora più antitetico. Il contrario di felicità è perfezione. Luciana è infelice perché vuole essere perfetta, perché vuole un mondo perfetto. E quando vuoi essere perfetta, niente è mai abbastanza, perché sei tu a non sentirti mai abbastanza. Nessun voto, nessun trofeo, nessun risultato potrà mai soddisfarti, potrà riempire il vuoto che hai dentro, potrà spegnere quella fame vorace che tutto ingoia.

 Silvia ha una sfilza di voti impressionanti, in tutte le materia. Apro il registro, li guardo: nove e mezzo, dieci, dieci, dieci, nove, nove e mezzo, nove e mezzo, dieci, dieci. Poi guado le presenze a scuola: d’un tratto, il registro si fa tutto rosso: assente, assente, assente… Da quel punto, di voti non ce ne sono più, ci sono solo assenze. Perché Silvia, la migliore della classe, a metà anno smette di venire a scuola, si chiude in camera sua,

E quando vuoi essere perfetta, niente è mai abbastanza, perché sei tu a non sentirti mai abbastanza. Nessun voto, nessun trofeo, nessun risultato potrà mai soddisfarti, potrà riempire il vuoto che hai dentro, potrà spegnere quella fame vorace che tutto ingoia. Silvia ha una sfilza di voti impressionanti, in tutte le materia. Apro il registro, li guardo: nove e mezzo, dieci, dieci, dieci, nove, nove e mezzo, nove e mezzo, dieci, dieci. Poi guado le presenze a scuola: d’un tratto, il registro si fa tutto rosso: assente, assente, assente… Da quel punto, di voti non ce ne sono più, ci sono solo assenze. Perché Silvia, la migliore della classe, a metà anno smette di venire a scuola, si chiude in camera sua, non vuole uscire. Silvia inizia a farsi del male per punirsi di colpe che non ha, per colpe che ci sono solo nella sua testa. Silvia rifiuta un mondo che le mette troppa pressione, una pressione a cui si ribella chiudendosi e distruggendosi. Silvia scappa da una realtà che è convinta le chieda di essere perfetta, anche se non è così. La realtà non chiede perfezione, chiede amore.

La perfezione è il contrario della felicità. Quando si parla di devianza giovanile, di problematiche adolescenziali, vengono in mente soprattutto comportamenti legati al bullismo, alle dipendenze, alla trasgressione; pensiamo magari ai cosiddetti «maranza», mai agli allievi modello. Ma anche l’ossessione per la perfezione è una devianza, anche la ricerca dell’eccellenza a ogni costo è una forma di dipendenza. La perfezione è il contrario della felicità. Sono convinto che ciascuno di noi, nel nostro ruolo di genitore, educatore, docente, debba averlo bene in mente. Solo così, attraverso il nostro stile educativo, potremo creare un clima sereno, nel quale si chiede impegno, ma si accetta anche l’errore come insostituibile strumento di crescita, come preziosa occasione e non come fallimento personale.

L’Eneide di Virgilio, il grande poema sul troiano progenitore dei Romani, uno dei capolavori più straordinari di ogni epoca, non sarebbe arrivata fino a noi, se avesse prevalso l’esigenza di perfezione. Virgilio, l’autore, chiese infatti nel suo testamento di distruggere l’opera, che, a suo dire, non era ancora stata sottoposta a un adeguato lavoro di labor limae e conteneva alcune sbavature. La volontà dell’autore, per fortuna di noi tutti, non fu rispettata: pare sia stato l’imperatore Augusto in persona a chiedere agli amici di Virgilio di diffondere comunque l’Eneide. Si dice infatti, anche se non c’è alcuna certezza al proposito, che Augusto avesse udito declamare in anteprima alcune parti dell’opera, commuovendosi profondamente. Anche oggi, leggendo l’Eneide, si è travolti dall’emozione. Enea è un eroe umanissimo, disposto al sacrificio di sé per i suoi, capace di sentimenti profondi. È un personaggio a tutto tondo, non un perfetto eroe senza macchia e senza tentennamenti. E, giunti al finale dell’opera, un finale che resta aperto, all’inizio si è un po’ sconcertati da questa incompiutezza, poi se ne resta affascinati.

Secoli dopo Virgilio, nel Medioevo, anche Francesco Petrarca, strepitoso poeta, cercò la perfezione nei suoi versi. Era certo che avrebbe ottenuto fama immortale dalle sue opere in latino, la lingua di cultura dell’epoca. Tra queste opere, però, ne compose un’altra: un’opera, a suo avviso, di minor valore, tanto che la chiamò «Rerum vulgarium fragmenta», cioè «frammenti di cose volgari». Si trattava di una raccolta di poesie in volgare, una lingua che per Petrarca era troppo popolare per essere utilizzata nella vera letteratura. Nella raccolta in volgare il poeta mette a nudo il proprio io con una lucidità e una modernità sconvolgente: racconta il suo travagliato amore per Laura, la sua tensione verso ciò che è assoluto, ma anche le sue cadute, la sua schiavitù a ciò che è mondano. Oggi, se Petrarca è conosciuto e studiato in tutto il mondo, è grazie alla sua opera che giudicava minore, i Rerum vulgarium fragmenta, meglio noti come il Canzoniere. Petrarca è divenuto immortale grazie all’opera che giudicava imperfetta, perché scritta in una lingua imperfetta, inadatta ai veri intellettuali. E le sue opere latine? Non è andata come il poeta si aspettava: sono oggetto di studio quasi solo per gli specialisti.

Tutti noi siamo un po’ l’Eneide e il Canzoniere.

 Noi e i nostri studenti, noi e i nostri figli.

La nostra bellezza, il nostro essere capolavori, passa dall’imperfezione, quell’imperfezione che è crepa capace di far trapelare la luce. Quell’imperfezione che è l’unico varco dal quale possono passare i desideri più autentici, ciò in cui crediamo, ciò che pensiamo, ciò che davvero siamo. Quell’imperfezione che chiede accoglienza e insegna ad accogliere davvero.


in foto: opera  di S.P. 

 

 

 

giovedì 6 novembre 2025

Quanto è importante l'efficace relazione con le famiglie nella scuola? Un libro non solo per i docenti.

 


ALLEANZE EDUCATIVE
COSTRUIRE RELAZIONI EFFICACI TRA SCUOLA E FAMIGLIA
di ANNAMARIA GIAROLO
Edizioni ERICKSON
Annamaria Giarolo, pedagogista e già insegnante, fornisce uno strumento decisamente interessante su un tema centrale che fa della scuola una esperienza  di qualità. Professionista di notevole esperienza educativa e pubblicazioni rivolte agli insegnanti, scrive di ciò che ha sperimentato, a garanzia di quello che propone in riflessioni e vissuti. Vorrei sottolineare come sia un manuale non solo per insegnanti, ma di utilità anche per i genitori, il cui ruolo nell' alleanza è fondamentale per essere definita tale. Ecco perchè l'etichetta del blog riporta entrambe le agenzie educative.

 Riporto qui la bella presentazione  editoriale:
"Quando scuola e famiglia si parlano davvero, nascono alleanze capaci di trasformare l’educazione in un autentico percorso di vita. Questo libro è un invito, rivolto a tutti gli insegnanti, a riconoscere il proprio ruolo come snodo centrale nella costruzione di relazioni educative autentiche e solide. Non si tratta di semplice buona volontà, ma di una professionalità che si esprime nel creare ponti, nell’accettare la sfida della complessità, nel sapersi mettere in discussione per trovare sempre nuove strade verso il benessere dell’altro. Perché è nelle relazioni — con gli studenti, le famiglie, i colleghi, i collaboratori, gli specialisti — che l’identità del docente prende forma e significato. Attraverso riflessioni, esperienze e strategie, il testo offre spunti concreti per affrontare le fatiche quotidiane della scuola e per dare voce ai bisogni educativi — speciali e non — che popolano ogni classe. Un libro che parla di cura, di ascolto, di cambiamento, e che riconosce l’insegnamento come la professione più alta e più umana che ci sia."

Pubblicato da Annamaria Gatti
gatti54@yahoo.it